ROMA - I sogni hanno bisogno di essere cullati. Accarezzati fino quasi fino a consumarsi. Ma al tempo stesso hanno anche necessità di appigli con la realtà. Di immagini, ricordi ed emozioni vissute che spingano ad andare avanti. Che portino a dire: sì, quel sogno, seppur pazzo può realizzarsi. In fondo è già successo. Esultanze, gol e gioie che ti fanno sentire vivo, che ti riportano sui luoghi del godimento e del pianto. No, non lacrime di dolore ma di felicità. Eterna. Un lungo brivido da domenica sera corre sulla schiena dei tifosi della Lazio. Come se quelle lacrime fossero piovute sulla testa dei laziali di oggi facendogli alzare gli occhi al cielo. Ci si è resi davvero conto della realtà. Perché un conto è dire sì la squadra di Inzaghi è forte e gioca bene, un altro è vederla a meno uno dal duo di testa Juventus e Inter. Si rischia di non crederci. E allora ecco che in soccorso arrivano quelle immagini e quelle emozioni già vissute.
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Lazio, questa stagione sembra quella del 1974
Le coincidenze astrali riportano a quello scudetto, arrivato con la forza del gruppo e del tecnico
PADRI E MAESTRI
La Lazio di Inzaghi è così uguale a quelle del 1974 e del 2000 ma al tempo stesso così unica. Impossibile sovrapporre le figurine una ad una. E’ invece possibile accostarle, come pezzi di un puzzle che combaciano tra loro. Simone come Maestrelli ha dalla sua il cuore. Un battito biancoceleste. Due “padri” nello spogliatoio. Di sicuro lo era molto di più il Maestro. Tommaso era l’unico in grado di tenere uniti due gruppi esplosivi. Inzaghi, invece, è il mentore di un manipolo di bravi ragazzi. Alcuni dei quali sono addirittura cresciuti con lui nelle giovanili. Niente a vedere con il glaciale Eriksson. D’altronde lo svedese doveva tenere a banda una banda di campioni. Uno spogliatoio che annoverava capitani delle più blasonate Nazionali. Uomini di personalità. Lui il ragazzino tra i fenomeni. Da Sven ha appreso i rudimenti del mestiere anche se i due per modalità di gioco sono distanti anni luce. Di quella cavalcata però la sua Lazio indossa la stessa maglia: celeste con una banda nera sul petto. Eccoli quegli appigli.
PEZZI DEL PUZZLE
Vedi Luis Alberto danzare sul pallone con il numero 10 sulla spalle e immediatamente la testa sovrappone l’immagine di Mancini. Stesso gusto nel mandare in gol i compagni. Lo spagnolo però ha movenze che ricordano molto Veron e soprattutto Frustalupi. Due geni del centrocampo. Corsa simile, entrambi a “culo basso”. Leiva corre per due come faceva Almeyda, ha il peso di Simeone seppur sia più silenzioso. Al centro della difesa non c’è certo un Nesta. Non ce ne voglia nessuno ma Alessandro è stato un fenomeno inarrivabile. Acerbi pur non avendo la fascia è più simile a Wilson. E se vogliamo imposta da dietro e lancia lungo come faceva Mihajlovic. Peccato che non abbia lo stesso piede nei calci da fermo. Una lacuna incolmabile nell’attuale Lazio che su punizione ha fatto un solo gol: Cataldi in Supercoppa. Poi ci sono quei giocatori che sono impossibili da avvicinare, per cui nemmeno un lembo combacia ma sono accostabili per dimensione. O meglio per l’importanza che hanno ricoperto. E allora ecco che Caicedo ricorda proprio Simone. L’attaccante che parte dietro ma si fa spazio. Che segna gol importanti.
C’È UN TEMPO…
Come nel 1974 questa Lazio è considerata l’outsider. La favola di cui avrebbe bisogno il campionato italiano. Ed ecco perché quel sogno sembra sempre più dolce. O meglio, più vero. Il dito di Chinaglia che indica la via maestra da seguire, i campioni del 2000 l’eccellenza in campo da imitare. I fili della storia sono pronti ad intrecciarsi di nuovo per cucire sulle maglie quell’idea. Perché c’è un tempo sognato e uno in cui bisogna sognare.
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