Dieci anni fa la sua Lazio vinceva il derby più importante, quello che per la prima - e unica - volta valeva l’assegnazione di un trofeo. Vladimir Petkovic è entrato di diritto nella storia biancoceleste e oggi, in occasione del decennale del trionfo in Coppa Italia, parla sulle colonne del Corriere dello Sport. Queste le sue parole.
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Lazio, Petkovic: “Successo più importante della carriera, al triplice fischio…”
Se diciamo 26 maggio 2013, qual è la prima immagine a cui ripensa?
“Quando l’arbitro Orsato ha fischiato la fine, ci siamo ritrovati tutti sotto la tribuna Monte Mario con i nostri tifosi e l’aquila Olympia. È quella l’immagine che mi viene in mente. Ho compreso dopo qualche anno quale importanza avesse il derby, non mi rendevo conto in quel momento, forse perché non volevo pensarci. Cercavo di togliere la pressione e di concentrare il gruppo su altre cose, ma non era possibile. Lo avevamo capito subito, all’inizio di febbraio. Ci eravamo qualificati alla finale e il pensiero era già proiettato al 26 maggio”.
Perché dice di essersene reso conto in ritardo?
“Ogni volta in cui vengo a Roma, i laziali che incontro mi ringraziano per il 26 maggio. Accade in continuazione da dieci anni. Così ho cominciato a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se fosse andata male... È stato importante quel momento. Nel calcio si vince e si perde, si festeggia e si va avanti. La consapevolezza di aver contribuito e partecipato a un momento unico mi rende felice. Lavoriamo per i tifosi”.
Il tempo sembrò fermarsi per l’intera estate.
“Non era scontato vincere e la Coppa Italia portò a un calo psicologico nella stagione successiva. Avvertivo l’appagamento tra luglio e agosto. Per la gente avevamo vinto e il resto non contava. Non mi piaceva molto, sapevo bene che il calcio si fa oggi, pensando al domani”.
Il campionato, dopo un grande girone d’andata, non finì benissimo.
“La squadra ragionava in maniera pragmatica. Pensavamo alla Coppa Italia e all’Europa League, uscimmo senza meritarlo ai quarti con il Fenerbahce, l’obiettivo era sulle coppe, non sul campionato”.
L’idea del ritiro a Norcia nacque prima o dopo l’ultima di campionato perdendo a Trieste con il Cagliari?
“Dopo, non prima. Gli animi si erano riscaldati, tutti erano nervosi e in quel momento era giusto isolarsi. Pensavo, in realtà, bastassero meno di sette giorni per rifiatare e riprendersi”.
Una settimana lunghissima.
“Nessuno va mai via contento da casa e il ritiro non era stato pianificato. Pensavo solo a qualche giorno di ritiro a Formello, non ad una settimana lontano da Roma. Quei sette giorni invece si rivelarono decisivi. Si formò un gruppo e una convinzione feroce. Ci credevano tutti. Per rinforzare la compattezza e la consapevolezza della squadra era fondamentale si parlasse e si lavorasse tanto. Ci riuscimmo anche grazie alle attività extrasportive e motivazionali organizzate con Sandro Corapi. Il mental coach aiutò la squadra a rilassarsi, allentando la tensione. Rientrando, decidemmo di far incontrare i giocatori con le proprie famiglie e organizzammo una festa a Formello il giorno prima del derby. Così riuscimmo a trasmettere un’altra carica di orgoglio e di motivazioni. Dovevamo vincere per i propri cari, non solo per la famiglia laziale. Si stavano concentrando in una partita tutti i sacrifici sopportati da inizio stagione”.
Chi decise di andare a Norcia?
“La società. Chi paga, decide. Giusto così. Io sarei andato in ritiro qualche giorno dopo, non lunedì. Pensavo ai giocatori, un periodo di sette giorni mi spaventava, temevo di trovarne alcuni non pronti. All’inizio della settimana eravamo nervosi, poi scattarono dinamiche positive e la chiusura a Formello diventò la ciliegina sulla torta”.
Dal punto di vista tattico, quali erano le sue preoccupazioni?
“Pensavo alla mia squadra, non tanto alla Roma, ma questa è la mia mentalità. Volevo che i miei giocatori ci arrivassero nella maniera giusta. Una finale non può essere bellissima. Da subito volevamo dare un segnale, entrando bene in partita e per vincerla. Ci riuscimmo”.
Come pensava di limitare Totti e De Rossi?
“Si era visto nei derby precedenti. Due giocatori così, romani cresciuti in società, possono essere un vantaggio o uno svantaggio per il modo in cui sentono il derby. È una partita piena, storicamente, di cartellini rossi. Era importante mantenere la calma, facendo attenzione alla qualità dell’avversario e portando rispetto. Ero sicuro che lo avrebbero sentito più di noi, ma la reazione di due grandi star come Totti e De Rossi non era prevedibile, certi giocatori possono girare la partita in un minuto”.
Biava seguì Totti anche al bagno...
“Un grande lavoro di tutti in fase difensiva, eravamo compatti, aggressivi, pronti ad affrontare l’avversario diretto senza paura. Giuseppe, come uomo e giocatore, era superlativo, ma dietro conta l’intesa tra i due centrali. Biava andava ad incollarsi in marcatura sull’uomo più pericoloso, l’altro si staccava e lo copriva. È più facile agire in coppia”.
Per la finale scelse Cana e non Dias.
“Scelta non facile. Lorik era più in forma in quel momento e ragionava di più. Dias era un grande difensore, ma come temperamento e pensando ai cartellini avrei rischiato di più. La squadra era esperta. Un allenatore ogni volta decide valutando la soluzione migliore e sperando di non sbagliare. L’unico obiettivo è vincere”.
Quel pallone bloccato sulla linea da Marchetti quanta ansia le fece venire?
“La Roma aveva reagito dopo l’1-0, era normale. Noi abbiamo vissuto due momenti così in quella Coppa Italia, penso al 93' della semifinale di ritorno e all’occasione del possibile 2-2 fallita dalla Juve. Episodi. Ricordo un altro derby in cui sul 3-1 prendemmo gol da metà campo con un tiro di Pjanic. Devi tirare dalla tua parte la fortuna, ma vincemmo meritando”.
Il gol di Lulic è diventato eterno.
“Un’azione del genere era tipica per come giocavamo in quella stagione: tenere il possesso palla e poi uscire, creando la superiorità sulle fasce con un giocatore abile nei cross come Candreva. Mezza squadra della Roma rimase tagliata fuori. Senad si fece trovare dove doveva trovarsi. Anche non colpendo bene il pallone, riuscì a colpire benissimo”.
Con Lulic vi capita di parlare del 26 maggio?
“Ogni tanto succede quando ci ritroviamo, ma non è che si torni tutti i giorni sull’argomento. La nostra soddisfazione è aver dato piacere ai tifosi e lo percepiamo anche dopo dieci anni. Vengo due o tre volte all’anno a Roma, mi sembra come se fossi andato via ieri, ma nello sport è bello anche il rispetto dell’avversario. Quando sei sportivo, ti rispettano”.
L’idea del video emozionale come nacque con Corapi?
“Lavorava a Formello da mesi. Si discuteva tanto, si lanciavano idee. Nel calcio e nella vita puoi pianificare sette mesi di lavoro, ma giorno dopo giorno devi essere pronto a cambiare. Non tutto va come immagini, devi essere equilibrato, elastico, aperto alle modifiche. Sandro, durante il ritiro di Norcia, organizzò persino dei giochi di società per far divertire la squadra e cementare lo spirito di solidarietà tra compagni. Uno aiutava l’altro, sorridendo. Un lavoro preziosissimo alternato ai colloqui individuali. Alla fine pensammo al video con l’aiuto delle mogli e dei figli”.
A quali giocatori si appoggiò di più nella preparazione del derby?
“Ai giocatori che avevano tirato tutto l’anno la carretta, non sarebbe giusto nominare uno o l’altro, il gruppo meritava. Faccio un esempio. Nel calcio moderno capita di vedere allenatori che scelgono il portiere per la Coppa Italia o per l’Europa League rispetto al campionato. Con me hanno giocato tutti e tre i portieri e sono stati decisivi. Non c’era un singolo giocatore. Vinse la Lazio. Prima abbiamo parlato di Totti e De Rossi. Da noi Ledesma e Mauri, lavorando a Formello da anni, capivano di cosa si stesse parlando e trasmisero molto nello spogliatoio”.
Una notte dolcissima a Ponte Milvio.
“Ricordo bene i festeggiamenti. Impiegammo, dopo la partita e la premiazione, un’ora e mezzo per raggiungere il ristorante. Dall’Olimpico erano appena uno o due chilometri di strada. Il pullman scoperto non riusciva ad andare avanti, era quasi trasportato dai tifosi, un fiume di gente intorno. Entusiasmo pazzesco. E dopo la cena, alle 4 di mattina, non potevamo uscire dal ristorante. Cominciammo a capire quanto era stato bello vincere quel trofeo contro la Roma”.
È stato il successo più bello della sua carriera?
“A livello di club sì. Ricordo sette-ottomila persone ad aspettarci a Bellinzona dopo la finale di Coppa a Basilea. Con la Svizzera ci sono state diverse soddisfazioni come il 5-2 al Belgio, la finale di Nations a Oporto, la vittoria ai rigori dell’Europeo contro la Francia. Momenti belli, realizzati e capiti in altra maniera”.
Quando tornerà ad allenare?
“Non è un imperativo, deve essere un piacere. E aspetto l’occasione giusta. Devono concorrere due o tre fattori”.
Ora la Lazio è in Champions.
“In questi dieci anni ha fatto grandissimi progressi, ha ringiovanito la squadra, ha comprato giocatori di valore, raggiungendo risultati prestigiosi. La tentazione di fare ancora meglio deve esserci sempre. Non è facile vedendo quanto spendono altre società. Tutti vogliono vincere, servono investimenti”.
Sarri le piace?
“È passato dal calcio spettacolare creato a Napoli a un calcio più pragmatico, perché ogni allenatore si deve adattare ai giocatori, in pochi possono lavorare sviluppando la propria idea e senza mai cambiarla, ma in due anni ha fatto un ottimo lavoro”.
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