Impossibile dimenticare Sinisa Mihajlovic, anche a distanza di più di un anno dalla sua scomparsa. Lo amano la Lazio e i suoi tifosi, i suoi ex compagni di squadra e ogni città in cui Sinisa ha lasciato il segno, come Bologna. Intervista da Il Messaggero la moglie Arianna ha raccontato tutto il suo dolore per la perdita del marito, a due giorni da Lazio-Bologna, la partita di Sinisa.
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Arianna Mihajlovic: “Lazio-Bologna la partita di Sinisa. I tifosi sono speciali”
Arianna, domenica c’è Lazio-Bologna...
«Lo so, è la partita di Sinisa, tornerò allo stadio e mi riavvicinerò al calcio da cui mi ero allontanata. Ci tengono anche i miei maschietti, sono tifosi sfegatati della squadra biancoceleste».
Un altro bagno di grandi emozioni.
«I tifosi della Lazio sono speciali, non mi hanno mai fatto sentire sola. Amavano Sinisa come quelli del Bologna, sia chiaro. Due ambienti speciali».
C’è un esonero che pesa, a poche settimane dalla morte.
«Sinisa non se lo aspettava e ci è rimasto molto male, d’altronde lo aveva anche detto. Non si sarebbe mai dimesso, voleva continuare perché la sua voglia di lottare era unica. Il Bologna ha scelto un’altra strada e non posso giudicare: ha onorato lo stipendio di mio marito fino alla scadenza del contratto. Un gesto straordinario, che in un momento di sbandamento mi ha dato delle sicurezze. Il presidente Saputo, Bergamini, Fenucci, Marchetti, Di Vaio: nessuno mi ha dimenticato, una società speciale e una città speciale. Anche con Sabatini c'era un rapporto pazzesco».
Bologna non vi ha mai fatto sentire soli.
«Mai. Ci era entrata nel cuore ancora prima della malattia. E durante il percorso di sofferenza è diventato un amore viscerale: le settimane in ospedale, la sofferenza al campo di allenamento. Tutto condiviso con gente meravigliosa».
Perché ha chiuso con il calcio?
«Forse una reazione istintiva, forse sono ancora alla ricerca di me stessa. Ho conosciuto Sinisa che avevo 23 anni, dal giorno do- po ho cominciato a vivere in un mondo in cui oggi non mi sento più coinvolta anche se i miei amici e le mie amiche fanno parte dell’ambiente. Ogni tanto seguo il Genoa perché il marito di Virginia gioca nella squadra rossoblù (Vogliacco, ndr). Ma vuole sapere una cosa? Il calcio in realtà mi manca».
Una reazione istintiva: vorrebbe continuare a vivere quel mondo ma non ci riesce.
«Più o meno, anche se frequento Federica Mancini, Barbara Marcolin e Daniela Orsi. Amiche che mi hanno tenuto in piedi nei
giorni del dolore e che ancora oggi sono sempre accanto a me».
Già, Mancini: tra lui e Sinisa c’era stato un momento di turbolenza.
«Vicende personali, forse incomprensioni, certamente chiarite con velocità. Negli ultimi giorni di vita, Sinisa mi aveva detto che Roberto era nel suo cuore come altri tre o quattro suoi amici. Lui non è mai mancato accanto a noi quando la morte si stava avvicinando».
E poi chi altro?
«Lucci, il procuratore, che c’era anche il giorno in cui ho conosciuto Sinisa. Ora sta insegnando il lavoro a Dusan, uno dei miei figli. Miro, invece, sogna di fare l’allenatore come il padre. Tra i due, Dusan si sente più Sini- sa: sta imparando il serbo e spesso va a trovare i nonni. Stankovic per loro è un riferimento».
Miro spera un giorno di lavorare nella Lazio.
«Sì, è partito con la gavetta, grazie all’Urbetevere. Lo vedo cresciuto e determinato, come il fratello. Sono diventati uomini».
La morte li ha responsabilizzati.
«Penso di sì, ma lei non ha idea di quale dolore abbiano provato in questi quattro anni. Loro, co- me me, sapevano tutto».
In che senso?
«Dopo la ricaduta, la situazione si è aggravata e quando i medici non ci hanno dato più speranze io mi sono confrontata con i miei cinque figli. Tutti insieme abbiamo deciso di non procura- re un altro dolore a Sinisa. Oggi, un po’, questo pensiero ci tor- menta: lo abbiamo tradito oppu- re amato, nascondendo la verità? Ancora non l’ho capito».
A Bergamo la sentenza definitiva: la cura sperimentale non era servita a salvarlo.
«Sì, ricordo ancora il viaggio verso Roma, io e lui chiusi nel silenzio. Amò - mi chiamava così - a cosa stai pensando, mi sussurrava ogni tanto. Io gli facevo coraggio e lui mi gelò: "sai, mi dispiace che i miei figli non avranno più un padre e che i miei nipoti non avranno un nonno"».
Pochi mesi prima, invece, un'immagine capovolta.
«Era in sala e guardava la tv. Amò, intorno a questo tavolo riuniremo sempre i nostri ragazzi e i nostri nipoti, ne voglio tanti. Sono davvero un uomo felice. Io e i miei figli eravamo pietrificati perché sapevamo che se ne sarebbe andato. Credetemi: vivo con queste immagini negli occhi e con il dolore nel cuore».
Deve trovare la forza per combattere come ha fatto lui.
«Sì, mi ha insegnato tanto ed è giusto che io lotti per la mia fami-glia. Ho visto molta gente morire in ospedale, la malattia è un viaggio terribile, pieno di dolore per tutti. La mattina mi sveglio pensando a Sinisa e alle sue parole e la notte vado a letto riflettendo su quante cose vorrei ancora dirgli, ma lui non c'è più».
Come passa le giornate?
«Cerco di non stare a casa, non ci riesco, troppa memoria, almeno per adesso. Vedo le mie amiche, mi occupo degli affari che gestiva Sinisa, poi ho dei momenti di crisi da cui esco con l'aiuto dei miei figli. Un giorno Nicolas, il più piccolo, mi ha chiesto di fare l'albero di Natale. Da sola non ce l'avrei mai fatta: guardi, lo vede? È ancora al centro della sala e non riesco a smontarlo».
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