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ESCLUSIVA 14 MAGGIO | Marcolin: “Scudetto Lazio? Andando all’Olimpico pensavamo…”

Michele Cerrotta
In esclusiva ai nostri microfoni uno dei protagonisti del secondo scudetto biancoceleste racconta tutte le emozioni di quel 14 maggio 2000

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Non è una data qualsiasi quella del 14 maggio nel mondo Lazio. In quel giorno del 2000, alle 18:04, la squadra biancoceleste vinceva il suo secondo scudetto nel modo più incredibile di sempre, dopo una clamorosa rincorsa alla Juventus e dopo il diluvio di Perugia, un segno del destino che ha restituito alla Lazio quello che un anno prima le era stato tolto. Oggi, venticinque anni dopo il trionfo, si celebra la ricorrenza importante del titolo di campioni d’Italia, ma anche tutto il glorioso periodo dell’era Cragnotti. E proprio per questo è intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni uno dei protagonisti di quell’epoca d’oro: “Il grande ricordo è soprattutto l’ultima giornata” racconta Dario Marcolin a Cittaceleste,it.

Ma la cavalcata alla rincorsa della Juventus è partita da quel famoso 1-0 con gol di Simeone e lancio di Veron. Quello è stato il momento in cui nello spogliatoio ci siamo detti che valesse la pena provarci, fino ad allora stavamo andando avanti vedendo che la Juventus aveva un ottimo ruolino di marcia. Vincendo là, qualcosa è cambiato nella testa di tutta la squadra. Lì abbiamo iniziato una rincorsa dicendoci di provare a vincerle tutte”. Eppure le sensazioni, nella marcia di avvicinamento allo stadio, raccontavano della necessità di affidarsi ai miracoli: “Devo dire la verità: anche arrivati all’ultima giornata ricordo ancora che nel tragitto da Formello allo stadio ero in fondo al pullman con Favalli, Nesta e Negro e dicevamo: ‘Se ci va bene andiamo a fare lo spareggio perché vinciamo con la Reggina e, se ci va bene, la Juventus pareggia col Perugia. Ma sarà difficile’. Anche perché l’anno prima la stessa partita il Milan a Perugia l’aveva vinta 2-1”.

Il destino e la pioggia di Perugia avevano però altro in mente: “Un anno dopo si presenta la Juve e, con grande serenità, credevamo che al massimo saremmo andati a fare lo spareggio. Anche se in fondo pensavamo che quella giornata sarebbe finita con la vittoria della Juventus. Invece poi da quel famoso tabellone che riportava ‘Cappioli’ come marcatore, mentre in realtà era Calori, si è trasformata in qualcosa di diverso. Abbiamo visto il tabellone, aveva segnato il Perugia, ma la partita era ancora lunga e la Juventus poteva ancora vincere. Era una fase emozionale bassa, al 3%”.

Inizia così il momento dell’attesa, sospesa in un silenzio mistico nella pancia dello stadio Olimpico: “Tutto nasce dalla partita sospesa, dal fatto che fossimo negli spogliatoi ad aspettare quasi increduli tutti quanti. Stava succedendo qualcosa di straordinario. Il ricordo più grande è che eravamo tutti lì, negli spogliatoi, senza radioline né televisione. E quando entrava uno nello spogliatoio eravamo tutti lì ad aspettare notizie ma allo stesso tempo a non voler ascoltare perché la sofferenza era tripla ascoltando la radiolina da Perugia, perché era rimasta solo quella partita e tutte le altre erano finite. Non ascoltavamo, non volevamo ascoltare. Se avessimo voluto sarebbe bastato andare al bar dell’Olimpico dove c’erano televisione e radio”.

Tutti assorti nei propri pensieri, alle prese ognuno con le proprie scaramanzie. Almeno fino a quando quel rito non veniva interrotto da intrusioni del mondo esterno: “Ogni tanto entrava qualcuno dalla porta e tutti lo guardavamo chiedendo se fosse successo qualcosa. Ricordo grandi silenzi, un silenzio strano e irripetibile. Poi di nuovo entrava qualcuno a cinque minuti dalla fine e ancora nel recupero. Fino a quando uno è entrato, ha dato un calcio alla porta e ha gridato: ‘È finita!’. E da lì è partito il delirio totale, non lo so neanche cosa sia successo. Siamo usciti tutti: chi in tribuna e chi in campo, chi si abbracciava. Si percepiva qualcosa di straordinario”.

Dopo l’attesa il trionfo, di certo inatteso e forse ancor per questo più bello: “È stata una festa inaspettata, poi ci siamo dati appuntamento tutti a Formello: è stata tutta un’improvvisata, ma qualcosa di straordinario. Per come è venuta è stata quasi surreale: anche con tantissime combinazioni non sarebbe venuta fuori una cosa così”. L’euforia di allora oggi si è trasformata nella consapevolezza di un’impresa: “Sul palco giovedì (domani, ndr) racconterò con altre persone quanto fatto quell’anno, ma a raccontarlo oggi c’è calma: si percepisce la bellezza di raccontare un'impresa sportiva come quando vedi i servizi alla tv”.

Uno scudetto, ma non solo: il trionfo con lo United e il successo in Coppa Italia, con l’unico piccolo rimpianto per il doppio confronto con il Valencia: “Quella è stata l’impresa sportiva di una squadra che quell’anno lì ha vinto tre titoli: ha vinto la Supercoppa a Montecarlo ad agosto, ha vinto la Coppa Italia e ha vinto lo scudetto. È mancata solo la Champions, altrimenti sarebbe stato quadruplete. Quella squadra ha vinto tre titoli su quattro: si celebra sì lo scudetto, ma anche la stagione straordinaria che quella squadra lì ha fatto. Ti faceva capire che quel gruppo poteva vincere contro chiunque e su qualsiasi campo, sia in casa che fuori”.

Una consapevolezza che si respirava anche nello spogliatoio: “Per me eravamo una delle squadre più forti del mondo: in quel periodo si andava in panchina in diciotto e le squadre avevano in rosa ventuno-ventidue giocatori. Noi in rosa avevano ben trentuno giocatori in rosa, non solo la coppia in un ruolo ma tre giocatori per ruolo. E abbiamo vinto tre competizioni su quattro. Neanche oggi, con ventuno giocatori in panchina, le rose hanno trentuno giocatori. Quella rosa lì aveva tutti giocatori con un pedigree molto alto. E la cosa che ha fatto specie di quella squadra lì, e non è da sottovalutare, è che in tantissimi hanno fatto gli allenatori. Era una squadra con una testa forte, concentrata: era un valore aggiunto”. Più di una stagione, più dei trofei: i colori biancocelesti sono rimasti nel cuore di tutti i protagonisti di quella magica squadra: “La Lazio è parte della mia vita: sono stato lì otto anni tra andate e ritorni, ancora oggi vivo a Roma e vivo il mondo Lazio da vicino. È una parte della mia vita”.

Infine un ricordo di chi quegli anni li ha vissuti ma oggi non è qui per festeggiarli: “Mihajlovic è stato un altro pezzo della mia vita: una persona che oltre al calcio ho vissuto anche fuori, con la sua splendida famiglia. Un uomo vero con cui ho avuto la fortuna di lavorare insieme a Firenze e all’Inter con Mancini. Eravamo un gruppone, una famiglia. E siamo ancora una famiglia, anche se senza un pezzo importante. Eriksson è stato un papà, un padre di famiglia. Nella mia vita non ho mai visto un allenatore essere amato dalla sua squadra così come era Eriksson. Avevi trentuno giocatori, ne giocavano undici ma gli altri venti tra panchina e tribuna avevano tutti un rapporto particolare con lui. Nessuno riusciva a volergli male: oggi se non giochi possono nascere antipatie, da noi non era così. Poi quando vinci l’80% delle partite di una stagione diventa anche più facile: vincere significa serenità, e in quello spogliatoio c’era tanta serenità”.