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Lazio, Cucchi e lo scudetto del 2000: “Dopo Perugia ho pianto, quelle parole…”

Riccardo Cucchi
Le parole e il ricordo dello scudetto biancoceleste del 2000 della voce che ha raccontato la cavalcata della Lazio di Sven-Goran Eriksson
Stefania Palminteri Redattore 

Riccardo Cucchi, per tutti i tifosi laziali è la storica voce che ha raccontato il secondo scudetto biancoceleste. Resteranno scalfite nella memoria le sue parole: “Sono le 18:04 del 14 maggio del 2000, e la Lazio è Campione d’Italia”. Una carriera tenendo allo scuro la sua fede biancoceleste, dichiarata una volta finita la sua carriera. Ai microfoni di tag24.it ha ricordato quei momenti e l'emozione nel raccontare quel capitolo leggendario della storia della Lazio.

“Solo oggi mi rendo conto di come quelle parole abbiano sortito questo effetto romantico. Dopo la fine di Perugia ho pianto in postazione, non mi vergogno a dirlo. Non immaginavo potesse accadere ciò che sto vivendo ora, e mi fa tanto piacere, soprattutto perché i laziali associano lo scudetto alle mie parole, in un orario peraltro strano come le 18:04 del 14 maggio.Dopo aver pronunciato quelle parole, se si ascoltano con attenzione, ci si può accorgere di una “o” strozzata, quella di campioni, che era il singulto che stava uscendo fuori e che avevo tenuto a bada ma stava apparendo minacciosamente, da inguaribile laziale (ride). Una volta terminato il collegamento, ho avuto una sola reazione: ho pianto in postazione, come un qualsiasi tifoso che gode di un successo così meraviglioso. Ho avuto la stessa reazione anche in Curva Nord il 12 maggio del ’74, quando ho vissuto quell’emozione da tifoso.

È stata una circostanza singolare quella che mi ha portato a urlare quella frase. Se è successo è perché a Perugia ci fu lo slittamento per pioggia. Se fossero terminate in contemporanea, quella frase l’avrebbe pronunciata il mio amico e collega Bruno Gentili. Il giorno in cui fui designato per Perugia, ho immaginato a cosa sarebbe successo in caso miracolo, sarebbe toccato a lui; ma il fato mi è venuto incontro, permettendomi di raccontare tutto quello che è successo dopo. Cosa provo dopo vent'anni? È bellissimo, mi fa effetto. Io vado allo stadio da abbonato, in mezzo ai tifosi, mentre percorro la strada per raggiungere il mio settore vengo fermato ripetutamente da ragazzi giovani, da papà con figli piccoli che non sanno chi sia, chiedendomi un selfie. Ma la cosa più bella è quando mi fermano con il loro telefono davanti la faccia, e in romanesco mi chiedono 'a Cù, ridiccelo'. L’ho ripetuta migliaia di volte quella frase, e mi fa sempre piacere.

Quando per quarant’anni ti chiedono quale sia la tua squadra del cuore, e puntualmente rispondi che lo sapranno solo alla fine della mia carriera, fa capire il tipo di orientamento che ho avuto. La bussola era orientata sempre sul lato dell’obiettività, senza far trasparire simpatie. Lo striscione dei tifosi interisti contro l’Empoli è stato bellissimo, li ringrazierò per sempre anche perché ho condiviso il racconto del Triplete di Mourinho. Immagino la sorpresa di chi pensava che fossi romanista, interista, juventino e pochissimi laziali, e questo mi da soddisfazione, perché il mio primo obiettivo era di rispettare i sentimenti del tifoso. Mentre raccontavo Perugia-Juventus avevo in mente due cose: tenere a bada il vulcano che stava esplodendo dentro di me, e dall’altra non perdere di vista lo stato d’animo dei tifosi bianconeri”.

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