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Sergio Floccari, ex attaccante della Lazio, è stato intervistato da La Gazzetta dello Sport ed ha parlato della sua esperienza in biancoceleste e di molto altro. Di seguito le sue dichiarazioni:
Floccari, riavvolgiamo il nastro. Non è stato facile per un ragazzino partito da un paesino della Calabria dove il calcio non c’era…
"È stata tosta. Io sono nato a Vibo Valentia negli anni Ottanta, era un altro mondo. Sia rispetto ad adesso, sia a come si viveva al Nord. Da noi mica venivano gli osservatori. Con papà, per andare ad allenarmi a Catanzaro, facevo più di cento chilometri ad andare e poi altri cento a tornare. Molti miei compagni mi chiedevano 'ma chi te lo fa fare?'. Io avevo fame, volevo emergere e non ho mai avuto paura di sacrificarmi".
Ha mai pensato di non farcela?
"Dopo il primo anno al Montebelluna, in provincia di Treviso. Non avevo amici, giocavo pochissimo e non segnavo. Ero l’unico ragazzo che veniva da fuori, vivevo a casa di una signora. Mi sentivo un po’ solo, così mi venne voglia di tornare indietro. Mio padre mi chiamò e mi disse: 'che torni a fa’?'. Mi ha dato tanta forza e uno stimolo per continuare. Io dovevo farcela. Due mesi dopo sono andato a Mestre e mi è cambiata la vita".
Si è pure iscritto all’Università. Nella sua testa era un piano B?
"No, a dire il vero non contemplavo la possibilità di non arrivare. O almeno non ci ho mai pensato. Però mi piacevano storia e filosofia, così decisi di iscrivermi. Esami dati? Zero… ma per colpa del calcio. Me la cavo così dai...".
A Messina nel 2006, dopo anni di gol e sgomitate in tutte le categorie, arriva la Serie A. Pronti via, doppietta alla Juve. Se la ricorda?
"Eccome. Potrei raccontarle i gol come se li avessi segnati ieri. Il primo: scatto in profondità, supero in velocità Cannavaro e infilo Buffon. Un sogno per uno che fino a due anni prima li usava alla PlayStation. Il secondo saltando su calcio d’angolo tra Viera e Trezeguet. Mio padre credo abbia fatto le ripetute sui gradoni della tribuna. Quella sera ho visto i suoi occhi commossi. Tutti quei viaggi e quei chilometri percorsi avevano trovato un senso. È stato come chiudere un cerchio".
Alla Juve segnò anche un altro gol fondamentale: con la Lazio, una zampata al 94’...
"Già, semifinale di Coppa Italia nel 2013. Andammo in vantaggio noi, poi allo scadere ecco il pareggio di Vidal. Sembrava finita. Invece, due minuti dopo, sbucai io: 2-1 al 94’. Ricordo l’Olimpico in delirio".
Anche perché poi quella finale è rimasta nella storia. Per chi c’era, che significato ha quel 26 maggio?
"Non è stato solo un derby, è stato molto di più. Quando vado a Roma le persone mi fermano ancora per strada. Fu una settimana folle, però. Credo di non aver chiuso occhio per quattro o cinque notti di fila".
Come dopo l’errore dal dischetto di tre anni prima?
"Eh… diciamo che anche lì non ho dormito tutta la settimana. Era una stagione strana: noi lottavamo per salvarci, la Roma era in corsa per lo scudetto. Sbagliare il rigore in un derby così sentito mi ha fatto male".
Lotito di lei disse che faceva una vita «quasi monastica». È vero?
"Sono arrivato alla Lazio che avevo 28 anni e facevo una vita normale. Senza eccessi. Preferivo leggere un libro più che andare in discoteca, forse questo dall’esterno era visto in modo un po’ strano".
Per Reja, invece, era un regista d’attacco. Si ritrova con la definizione?
"Si, assolutamente. Per me è stato un allenatore molto importante, mi ha messo al centro del suo gioco. Io sapevo calciare con entrambi i piedi, avevo una buona elevazione, ma non sono mai stato propriamente una prima punta. E con lui ho fatto molto lavoro di raccordo per la squadra".
Si è definito un «operaio del pallone». Ritratta?
"Non intendevo per le qualità tecniche, mi riferivo al percorso, se parti dai Dilettanti è più difficile arrivare".
I suoi gol, comunque, li ha sempre fatti. Il più bello?
"Ne cito due. Quello al Maribor con la Lazio e uno al Milan con la maglia della Spal. Segnai a Donnarumma da trenta metri, mica male".
Dal Duemila ha cambiato undici squadre in vent’anni. C’è qualche scelta che non rifarebbe?
"Intanto devo dire che non sono sempre stato io a scegliere. All’Atalanta con Del Neri allenatore, per esempio, stavo benissimo, ma la società scelse di vendermi al Genoa. Lì ho trovato Gasp, un martello. Mi ha fatto crescere molto. Ma dopo un anno, decisi di cambiare ancora e accettai la Lazio. Non so dirle se ho fatto bene o male, so solo che sono felice del percorso fatto. Il calcio mi ha insegnato tantissimo. Sia a livello di valori che di esperienze fatte. Ho girato il mondo e conosciuto gente proveniente da ogni dove".
In chiusura: un rimpianto?
"Forse la Nazionale. Ma va bene così. Troppo facile dire 'ora saresti titolare...'. Io sono stato convocato due volte, ma senza esordire. Ai miei tempi per essere chiamati c’era bisogno che in attacco scoppiasse un’epidemia...".
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