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Il 20 febbraio del 1969 a Vukovar nasceva Sinisa Mihajlovic: oggi sarebbe stato il suo 56esimo compleanno. Per questa occasione, il fratello Drazen ricorda lo storico difensore della Lazio in un'intervista. Ecco le sue parole:
Drazen, qual è il primo ricordo che ha di Sinisa?
“In realtà il primo ricordo non è mio, ma suo. Me lo ha raccontato tante volte e fa capire chi era mio fratello. Avrà avuto forse sei anni, io appena due. I miei andavano a lavorare presto e non c’erano soldi per la tata e per consentire a Sinisa di andare all’asilo, così a me la mattina dopo le 6 doveva pensare lui. Per cui usciva di casa, mentre io ancora dormivo, e andava a comprare il latte e il pane per la colazione, ma nonostante facesse già cose da adulto era solo un bambino con tutte le paure di chi ha quell’età. Per cui quando tornava a casa si fermava spalle alla stufa fermo immobile con gli occhi sbarrati a guardare la porta di casa per paura che entrasse qualcuno. Credo che vincere la paura sia stato un esercizio che ha imparato allora. Il ricordo solo mio invece non riguarda un episodio, ma il rumore…”.
Il rumore?
“Sì, delle pallonate che per intere giornate Sinisa scagliava contro la serranda del garage fuori dalla nostra casa. Parecchie volte ha costretto a cambiarla. Mirava agli incroci. Le sue punizioni vincenti sono nate lì, calciando da solo decine di migliaia di volte e facendo imbestialire il nostro vicino, il signor Dragan”.
Vi dividevate i giocattoli?
“Poco, Sinisa ne era geloso, perché lui è sempre stato preciso, meticoloso, teneva tutto in ordine. Quando arrivavo io smontavo e rompevo tutto. Passi per le macchinine, ma i palloni non me li faceva mai toccare. Li curava come fossero figli, metteva il grasso la sera per non rovinarli e alcuni li usava solo sull’erba per non farli sbucciare. Come fossero le ginocchia dei bambini. Però ci scambiavamo le scarpe”.
Avevate lo stesso numero?
“No, ma a mio padre la ditta dove lavorava ne regalava sempre un paio a Natale e lui a turno permetteva a me e Sinisa di andare a cambiarle con il nostro numero”.
Che rapporto avevate con i vostri genitori?
“Mamma è stata il vero generale di casa, ci ha cresciuto lei, pur dovendo lavorare. Papà ha fatto una vita faticosa, difficile, senza mai svaghi o divertimenti, come gli uomini della sua generazione tra la guerra e poi il regime di Tito. E questo lo portava spesso al bar e quando tornava era difficile… Se ne è andato parecchi anni fa per un tumore. Sinisa diceva che per ricordarlo ordinava sempre due grappe, una per lui e una per papà. Io ora ne ordino tre…”.
Avete fatto carriere diverse.
“Io sono entrato in polizia, non avevo la classe di Sinisa, il calcio non faceva per me. Credo che in Italia non si sia mai capito cosa sia stato Sinisa per il nostro Paese pur avendo giocato poco qui. Lui è un mito assoluto, non solo per i tifosi della Stella Rossa e per la vittoria della mitica Coppa Campioni del 1991. La semifinale contro il Bayern con un suo gol qui è considerata tra le partite di sempre”.
La guerra ha lacerato un Paese, disgregato famiglie, lasciato ferite indelebili anche a voi.
“Mio cugino croato, figlio del fratello di mamma, voleva far saltare casa nostra a Borovo con i miei all’interno durante la finale contro l’Olympique. Non lo fece solo perché con gli zii in casa c’era anche suo fratello. Pipe, un amico fraterno di Sinisa, sempre croato, la distrusse, ma solo per spaventare i miei e costringerli a scappare altrimenti sarebbero potuti morire. Chi ha visto l’orrore non può dimenticarlo”.
Durante il conflitto Sinisa riuscì a portavi a Roma.
“Sì ma durò poco, mio papà era serbo dalla testa ai piedi, aveva la sensazione che stesse scappando e volle tornare: ‘Se devo morire, morirò a casa mia, tra la mia gente’. Così rientrammo tutti, non potevo lasciarlo solo”.
Arriviamo ai momenti più drammatici, la scoperta della malattia…
“Ero in Sardegna con mio fratello, Arianna e tutta la sua splendida famiglia, quando una mattina dopo essersi alzato non riusciva neanche a camminare. Io lo prendevo in giro: ‘Sembri un vecchio di 90 anni…'. Pensavamo fosse uno stiramento o una infiammazione perché aveva giocato a padel. E invece…”.
Lei dovette informare la mamma, quando la diagnosi fu chiara.
“Fu uno dei momenti più difficili della mia vita. Mamma è sempre stata una roccia, ma neanche la donna più forte del mondo può resistere al dolore della possibile perdita di un figlio. Come poi purtroppo è avvenuto”.
Sinisa sembrava esserne uscito, aver recuperato, poi la ricaduta.
“Il coraggio e la forza fisica e di volontà di mio fratello sono stati incredibili. È rimasto sempre positivo, pronto a combattere, convinto di farcela”.
È stato lei a fornire il midollo per il secondo trapianto.
“Sì, pareva potesse aumentare le possibilità di riuscita. So che non è colpa mia, ma non averlo salvato è una ferita che non si rimarginerà mai”.
Non c’è consolazione, ma può alleviare un po’ l’enorme dolore sapere quanto sia stato amato.
“Sì, me ne sono accorto il giorno del funerale seguendo il feretro: le strade chiuse, la gente fuori, personaggi non solo sportivi ma della vita politica e pubblica in Italia. È stata una incredibile dimostrazione di affetto”.
Cosa fa lei oggi, Drazen?
“Continuo la mia vita con mia moglie e i miei due figli a Novi Sad. Sto con mia madre, vado spesso a Roma a trovare Arianna e i miei nipoti e poi curo tutte le iniziative possibili per celebrarlo. L’ho promesso a Sinisa: il giorno che se ne è andato sono rimasto tutta la notte con lui. Ho detto quello che tra uomini non ci si dice mai. Vorrei pubblicare in Serbia l’autobiografia "La partita della vita", scritta con te e poi intitolargli lo stadio che nascerà in occasione dell’Expo 2027. Altrimenti il campo dove si allena la nazionale nel centro federale, affinché non si dimentichi mai chi è stato e cosa ha rappresentato Sinisa Mihajlovic”.
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