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Juan Sebastian Veron, centrocampista biancoceleste nella Lazio del secondo scudetto, ha cercato di trasmettere, tra le colone della Gazzetta dello Sport, le emozioni di quella vittoria. L'argentino ricorda con affetto la vittoria, raccontando il segreto del successo. Ecco le sue parole.
“La radiolina di Sensini, naturalmente, è la prima cosa che mi viene in mente. Non c'erano mica gli smartphone, a quel tempo. Si poteva vedere la partita su qualche schermo nella pancia dell'Olimpico, ma io non ce la facevo: soffrivo troppo. Е allora mi sono affidato a quell'oggetto che gracchiava un po', la voce non era sempre nitida, pulita... Il mio amico Nestor mi ripeteva di stare tranquillo, ma non ci riuscivo, ero agitatissimo.
Per esultare ho fatto un salto con le braccia alzate verso il cielo, che era poi il soffitto dello spogliatoio. E mi sono messo a piangere. Si, a piangere come un bambino. Avevo raggiunto il mio sogno e quello era il mio modo di festeggiare, mentre la gente impazziva di gioia, dentro e fuori dall'Olimpico.
Considerando il finale, direi che è stato un scudetto figlio della sofferenza. Io lo definirei anche lo scudetto della qualità. Eravamo la squadra più forte del campionato, e questo voglio gridarlo forte anche a venticinque anni di distanza. Nessuno era forte quanto la mia Lazio.
lo ero arrivato l'estate del 1999, dopo aver vinto con il Parma la Coppa Uefa e la Coppa Italia. Volevo lo scudetto e sapevo che alla Lazio avrei potuto conquistarlo. Nel 1999 a vincerlo fu il Milan, ma la Lazio di Eriksson era superiore. Diciamo che nel 2000 la gente fu ripagata anche per la delusione dell'anno precedente.
Eravamo una squadra fantastica, dotata di grandissime qualità tecniche e, soprattutto, umane. E poi a guidarla c'era un allenatore speciale, Sven Goran Eriksson, uno che a me ha insegnato tantissimo. Mi ha spiegato come dovevo fare il calciatore e, contemporaneamente, mi ha fatto crescere come uomo. Gli devo tantissimo.
Molto semplice. Eravamo una squadra con tantissimi talenti. Penso a Mancini, a Boksic, a Nedved, a Mihajlovic, a Nesta, e di sicuro me ne sto dimenticando qualcuno... Bene, sapete che cosa ha fatto Eriksson? Non si è messo a disegnare schemi sulla lavagna, sapeva che sarebbe stato inutile, ma ci ha fatto sedere sulle panche dello spogliatoio e ci ha detto che cosa pretendeva da noi sul piano umano.
Desiderava che ognuno di noi togliesse qualcosa al proprio ego e lo mettesse a disposizione del gruppo. Tutti fummo convinti da quel discorso, e i risultati sono li a testimoniarlo. Quella Lazio era, prima di tutto, un grande gruppo. Si lavorava duramente in allenamento, ci si impegnava per la causa e si lottava dimostrando un'unità d'intenti che non è sempre facile trovare in un club.
Ogni giocatore fu importante per quel successo. All'inizio ricordo che Simeone e Almeyda non erano molto impiegati, però non si demoralizzarono, non fecero polemiche, e sapete che in certe situazioni è molto semplice far scoppiare un casino. Loro zitti continuarono a lavorare e furono determinanti. Merito di Eriksson che seppe sempre coinvolgerli.
Nessuno è insostituibile, tranne il grande Maradona. In quella Lazio mi trovavo a mio agio, c'erano giocatori con i piedi buoni, si faceva un bel calcio. Lo ripeto: eravamo i più forti e lo abbiamo dimostrato. Non c'era una squadra più forte di noi a quel tempo.
Bastò uno 0-0 per conquistare la Coppa Italia; all'andata avevamo battuto l'Inter 2-1. Però quell'impegno non ci fece festeggiare lo scudetto come avremmo voluto e dovuto: pazienza. Mi resta un meraviglioso ricordo che nessuno potrà mal portarmi via, e mi resta la certezza che vincere uno scudetto con la Lazio è molto più difficile che in altri club. Per questo la nostra fu un'impresa memorabile."
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