La Lazio del '74, racconta da Luigi Martini alle colonne de Il Messaggero. Il terzino biancoceleste ha ripercorso tutto il percorso di quella squadra storica, raccontando ogni singolo protagonista: “Non può essere solo una vittoria di uno scudetto a far diventare una squadra leggenda. Anche il Cagliari, il Verona, la Fiorentina hanno strappato un tricolore contro ogni pronostico, ma nessuno è finito nel mito. Quale altra società al mondo ha avuto due-tre giocatori che facevano anche i paracadutisti? Quale squadra spaccava i lampioni con le pistole in ritiro per spegnere la luce? Quale club aveva un presidente rovinato dai debiti fino al collo, che chiedeva prestiti per rimetterli nella Lazio perché la considerava la sua unica ragione di vita? Quale gruppo è stato travolto da una simile spirale di morte come uno scherzo del destino? Quale altro allenatore muore, va in una cappella e si porta dentro i due giocatori più significativi? Brera e i giornali del Nord ci snobbavano, Pasolini ci chiamava la banda di fascisti, eravamo considerati la feccia del calcio, e invece eravamo leggenda. Non solo perché sapevamo giocare. Eravamo così trainanti che padre Lisandrini, un frate sereno e preciso, una volta si tirò su il saio e prese a calci un romanista che ci aveva offeso. Noi prendevamo a pugni la vita, come a Ipswich, quando arrivarono i celerini a fermarci. Con quella banda e il miglior direttore suonavamo il rock”.
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Martini: “Quella Lazio prendeva a pugni la vita: vi racconto chi eravamo”
Maestrelli
“Era talmente grande da mettere in ombra il nostro reale valore. È stato l'unico allenatore ad aver vinto con due squadre del Sud (Reggina e Foggia, ndr). Si è inventato il calcio all’olandese prima dell’Olanda. Solo con lo sguardo sottometteva a sé il mondo, incendiava le menti e mandava i suoi soldati a combattere. Carismatico, saggio, tutti erano ammaliati, era il manovratore di un treno, noi solo gli ingranaggi, ognuno un suo alleato».
Pulici
“Il principale agente del Maestro. Tommaso aveva capito che non poteva lasciarci da soli nemmeno un minuto, Felice gli doveva riferire tutto ciò che non vedeva, ce lo confidò dopo tanti anni. Era affidabile perché non prendeva mai le parti di nessuno, capiva quando l'atmosfera si surriscaldava e la raffreddava con una battuta all'improvviso”.
Petrelli
“Col sorriso ti faceva passare un proiettile accanto all'orecchio. Se gli girava male, era terribile. Una volta stavamo uscendo da una cena, con la sua Mercedes trascinò per tutta via di Ripetta un tizio che si era fermato a parlare con un conoscente. Un'altra volta saltò addosso a uno e gli spaccò un sopracciglio. Maestrelli lo fece curare dal medico, poi tornò da noi e ci fece fare una colletta di 50mila lire a testa. Raccogliemmo 750mila lire e Tommaso li diede al ferito, che alla fine ci strinse la mano e addirittura ci ringraziò”.
Wilson
“Era la mente che sapeva muovere Chinaglia, senza che se ne accorgesse. Pino coltivava la forza che si sprigionava da ognuno di noi. Andava da Giorgio e gli diceva "questi ci stanno prendendo per il c**o, lo ha visto?" oppure "Gigi Riva è di gran lunga più forte di te'. Giorgio impazziva e diventava Hulk”.
Oddi
“Il fratello unico di Chinaglia. Lo calmava dandogli torto. Gli diceva la verità in modo crudo, ed era la sola che Giorgio accettava”.
Martini
“La sofferenza era la nostra arma vincente. Io volevo fuggire dal posto dove ero nato, mi stava stretto. Mi avevano scartato tutti, dalla Fiorentina alla Juve, diventai un romano di Lucca, giocavo a calcio solo perché correvo più di chiunque altro”.
Nanni
“Gli rimbalzavano addosso le botte che gli davamo, era sempre positivo. Stava in mezzo a un mucchio selvaggio, al suo posto”.
Frustalupi
“C’era la squadra e poi lui. Gli davi il pallone e te lo metteva dove volevi. In copertura era il più forte del mondo, è stato all’altezza di Gianni Rivera, ma se n’è parlato poco”.
Re Cecconi
“Non era con me per una lotta di potere. Non tollerava che un idolo come Giorgio ci insultasse invece di incoraggiarci. Si apriva solo con quelli di cui si fidava, studiava tutto e tutti”.
Garlaschelli
“Un poeta, un fenomeno padano, entrava in campo per ultimo e usciva per primo, perché pensava solo alle donne, ne aveva una al giorno. Chinaglia si infuriava perché non capiva nulla del suo accento. Viveva la dolce vita di Fellini, il Jackie O”.
D’Amico
“A 17 anni, guadagnava 10 mile lire e ne spendeva 20. Maestrelli gli aveva tolto i soldi e glieli amministrava. Con noi era rispettoso, dava ragione a tutti perché era il più piccolo, ma ci raggirava con il suo fare da bambino furbo”.
Chinaglia
“Era il Tyson del calcio, mordeva il pallone. Io e lui eravamo due fratelli, uno combatteva per il Sud e uno per il Nord, ma io combattevo anche il diavolo che lui aveva dentro. Anche se vincevamo 3-0, se non segnava o segnavamo noi, stava male e faceva l’inferno. Giorgio sa che alla fine gli volevo un bene dell’anima. Quando andai a New York col Chicago, mi venne a prendere in albergo per portarmi in giro e mi parlò tutto il giorno della Lazio. Mi disse, io senza Tommaso non avrei avuto nulla e sarei morto”.
Gli altri
“Moriggi, Facco e Polentes erano fondamentali e si allenavano con una serietà incredibile, sapendo di non giocare mai. Le riserve erano dei tifosi aggiunti, la Curva Nord dentro lo spogliatoio”.
Lenzini
“Grazie a Maestrelli, è riuscito a mostrare la sua grandezza. Aveva sposato totalmente la linea che il tecnico aveva con la squadra, folle per un proprietario. Ci faceva sparare con le pistole, veniva sull'aereo a vedere i nostri lanci con il paracadute. Prima dello scudetto, rifiutò per me e Re Cecconi quasi 2,5 miliardi. Era il capo dei matti del ‘74”.
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