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Negro si racconta: “La Lazio come una scintilla. Ho sofferto l’addio…”

Paolo Negro
Le parole dell'ex difensore biancoceleste, intervistato dalla Gazzetta dello Sport, il quale ha raccontato la sua esperienza nella Capitale
Edoardo Benedetti Redattore 

Paolo Negro, ex difensore della Lazio, è stato intervistato dalla Gazzetta dello Sport per parlare delle vittorie con l'aquila sul petto fino all'addio nel 2005, passando per l'interesse del Real Madrid. Di seguito le sue dichiarazioni:

Com’è finita con l’Uganda?

"Mai andato: era un mercoledì, stavo guardando la Lazio, arriva una telefonata. “Ti vogliono come ct dell’Uganda”. Bene, mi dico, ma un paio di giorni dopo la federazione annuncia un altro allenatore. L’ennesima delusione di un mondo marcio".

Una volta disse. "Mi chiesero 50mila euro per allenare".

"Confermo, volevano uno sponsor. A distanza di anni non è cambiato niente. Se avessero chiesto quei soldi a mio padre anni fa, di sicuro non avrei mai fatto il calciatore professionista. Vengo da una famiglia di operai, conosco il valore dei soldi".

Ha mai avuto un piano B?

"Avrei lavorato in conceria. A Brescia facevo l'imbianchino e poi filavo al campo. Lì giocavo come centravanti. Nel Chiampo, la squadra del paese, segnavo 70 gol all’anno, ma se non mi avessero cambiato ruolo non avrei mai sfondato. A 16 lavoravo, mentre a 19, col Brescia, marcai Van Basten e Maradona in Serie A. Il salto della vita".

Il debutto tra i professionisti?

"Settembre 1990, in Polonia, contro lo Zaglebie Lubin. Primo turno di Coppa Uefa. “Scoglio lancia uno sconosciuto”, scrissero. Col primo stipendio mi comprai un’auto, coi guadagni della conceria avevo preso una piccola tv".

E la Lazio come arrivò?

"Dopo un Brescia-Lazio del 1993 giocato in campo neutro, a Trieste. La gara perfetta. Il mio agente mi aveva avvertito il giorno prima: “Vedi che devi fare... perché oggi dagli spalti ti guardano”. Signori non toccò un pallone per 90 minuti".

Album dei ricordi. Dino Zoff?

"Quando arrivai mi chiese chi fossi. Ha preso un ragazzo timido e l’ha reso un uomo".

Un altro, Zdenek Zeman.

"Se chiudo gli occhi sento ancora i “mortacci tua...”gridati da mezza squadra. Con lui non mangiavi, ti asciugavi e perdevi chili. Un martello".

Sven Goran Eriksson.

"Impossibile arrabbiarsi con lui. Un uomo gentile che ha preso uno spogliatoio di matti e l’ha portato a vincere lo scudetto. Ancora oggi, quando penso a lui e a Sinisa, mi viene da piangere e non riesco a parlare. Mi mancano ogni giorno".

Diego Simeone e le partitelle.

"Due squadre: giovani contro “anziani”. Niente ruoli. In palio i soldi, che a fine stagione finivano in beneficenza. Ho visto dozzine di risse: una volta Couto e Simeone si rincorsero con un coltello in mano e sfiorarono il danno. Dal giorno dopo, nello spogliatoio, misero le posate di plastica".

Ora i luoghi: stadio Louis II.

"La Supercoppa Europea vinta contro lo United campione di tutto, nel 1999. Il manifesto di come quella Lazio, oggi, avrebbe vinto cinque scudetti di fila. Ci è mancata solo la Champions. Colpa di quella maledetta partita col Valencia ai quarti. Se avessimo giocato l’andata altre sei volte, non avremmo preso 5 gol".

Stadio Olimpico, 14 maggio 2000. Il giorno dello scudetto.

"Ci ho sempre creduto. Anche dopo quel gol annullato a Cannavaro. Come disse Simeone, nel calcio c’è sempre giustizia. Io feci avanti e indietro dalla palestra allo spogliatoio. Conservo ancora le foto di mia moglie. Le dissi di portare la macchina fotografica: ero sicuro che avremmo vinto".

Ha mai avuto offerte per andare via?

"Nel 1998 fui a un passo dal Real Madrid. Avevo iniziato il trasloco, ma Cragnotti non mi liberò. Ha avuto ragione: quella Lazio valeva i Blancos".

Cosa ha rappresentato la Lazio?

"Una scintilla. Qualcosa che ti entra dentro e non esce. I tifosi mi hanno sempre voluto bene, anche dopo l’autogol del 2001 con la Roma. L’ho sofferto parecchio, ma mai come l’addio".

È il rimpianto più grande?

"L'unico. Avrei chiuso la carriera nella Lazio. Nel 2005 Lotito mi mise fuori rosa perché rifiutai di spalmare il contratto, quindi andai a Siena. La sorte mi ha ripagato: il giorno della mia ultima partita, il 27 maggio 2007, segnai il gol vittoria che salvò il mio Siena proprio contro i biancocelesti".

"Il calcio di oggi mi annoia". Come mai?

"Quando vedo che un difensore che prende palla e la passa al portiere penso a ciò che avrebbe detto Zeman. Io non ero un fenomeno, ma le mie otto partite in Nazionale nell’era di Maldini, Cannavaro, Nesta e tutti gli altri sono una medaglia".

Con l’offerta giusta ripartirebbe?

"Certo, il calcio è la mia passione. Nel frattempo, mi godo l’orto. Ho costruito un gioiellino in giardino, ma coi gradoni di Zeman faticavo meno".