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FEDERSUPPORTER – Doveri degli arbitri: responsabilità civile per colpa
La nota di Federsupporter
I fatti di Lazio-Torino dell’11 dicembre scorso offrono lo spunto per una più ampia e generale
disamina dei doveri degli arbitri e della loro responsabilità civile per colpa.
Secondo il Regolamento AIA ( Associazione Italiana Arbitri), art. 40, “ Gli arbitri sono tenuti a
svolgere le proprie funzioni con lealtà sportiva, in osservanza dei principi di terzietà, imparzialità
ed indipendenza di giudizio, nonché a comportarsi in ogni rapporto comunque riferibile all’attività
sportiva, con trasparenza, correttezza e probità”.
Principi, peraltro, conformi sia al Codice di Comportamento Sportivo del CONI, in cui sono
specificati “ i doveri fondamentali di lealtà, correttezza e probità” sia all’art. 1/ bis del Codice di
Giustizia Sportiva della FIGC che prescrive per tutti gli appartenenti all’ordinamento calcistico
l’osservanza dei suddetti doveri.
Per quanto riguarda gli arbitri di calcio, quindi, all’osservanza dei doveri di lealtà, correttezza e
probità, cui sono obbligati tutti, indistintamente, gli appartenenti all’ordinamento calcistico, si
aggiunge, trattandosi di coloro ai quali è conferita l’autorità di far osservare le regole del gioco
nell’ambito delle gare che dirigono, l’osservanza anche dei doveri di terzietà, imparzialità ed
indipendenza di giudizio.
Doveri riconducibili ai principi generali giuridici di buona fede e correttezza che vietano di “ dover
considerare permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta e facoltativo ogni
comportamento che nessuna norma rende obbligatorio “ ( cfr. Francesco Galgano in “ Diritto
Civile e Commerciale”, pag. 462, Padova, 1990).
Alla luce di quanto precede, non v’è dubbio, perciò, che la violazione dei suddetti doveri ne
determina la responsabilità in capo all’agente.
Una responsabilità che va valutata, essendo gli arbitri di calcio dei professionisti, secondo la
nozione di responsabilità professionale.
Quest’ultima che esige dal professionista il rispetto del dovere di diligenza nell’espletamento della
sua attività.
Diligenza che non è quella comune del buon padre di famiglia, bensì quella professionale ex art.
1176 CC.
Una diligenza, cioè, commisurata alla natura dell’attività esercitata e pari a quella attendibile da un
professionista di media capacità e preparazione.
Nei casi in cui l’esercizio di tale attività richieda la soluzione di problemi tecnici superiori alla
media e, quindi, implichino una preparazione professionale superiore a tale media, la responsabilità
del professionista sussisterà solo in ipotesi di colpa grave ( art. 2236 CC.).
Vale a dire in ipotesi di inosservanza del minimo di diligenza esigibile.
In altre parole, mentre in presenza di casi medi che non richiedano una preparazione professionale
superiore alla media qualsiasi mancanza di diligenza professionale è inescusabile, nei casi più
complessi, tale mancanza è scusabile sempre che essa non superi un livello minimo di diligenza
comunque esigibile.
La responsabilità professionale per colpa comporta l’obbligo per il professionista di risarcire i danni
causati dalla sua condotta, danni patrimoniali e non patrimoniali, cagionati a tutti coloro i quali li
abbiano subiti a causa del comportamento negligente.
Nel caso di arbitri di calcio, con la recente introduzione, a valere per la stagione sportiva 2017-
2018, del così detto “VAR” ( Video Assistant Referee), cioè un sistema di assistenza all’arbitro
mediante l’ausilio di immagini video, così da consentire allo stesso arbitro di evitare errori di
valutazione potenzialmente incidenti sull’andamento e sull’esito della gara ( così dette “ Match
changing situation”), la diligenza professionale richiesta al suddetto arbitro è indubbiamente
accresciuta, aumentandone la responsabilità.
Tra i casi specifici di utilizzo del VAR sono previsti quelli concernenti il rigore e l’espulsione diretta
di un giocatore.
Utilizzo del VAR che, nei casi di cui sopra, può avvenire o su segnalazione all’arbitro degli
assistenti al VAR, oppure in base a decisione dello stesso arbitro, fermo restando che è quest’ultimo
l’unico soggetto deputato a prendere la decisione finale e ad assumersene la responsabilità.
Qualora si avvalga, su segnalazione degli assistenti o su propria, spontanea decisione, del VAR,
l’arbitro può visionare in slow motion l’esatto punto di contatto in occasione di un fallo fisico o di
mano e, a velocità normale, l’intensità del fallo fisico e la volontarietà di quello di mano.
Ne consegue, in ossequio al dovere di diligenza professionale media nei casi normali e a quella di
diligenza minima nei casi più complessi, che sia contrario a tale dovere il mancato utilizzo del VAR
da parte dell’arbitro.
Così come contrario ai doveri di terzietà ed imparzialità è il comportamento dell’arbitro che, con
riferimento alla medesima azione di gioco, mentre consulta il VAR per stabilire l’intensità di un
fallo fisico, determinando, a seguito di tale utilizzo, l’espulsione di un giocatore, viceversa, non
utilizza il VAR avrebbe potuto determinare un calcio di rigore a favore della squadra del giocatore
espulso.
Decisione, quella dell’espulsione di quest’ultimo, poi smentita dal Giudice sportivo che ha sancito
essere quel fallo non dovuto a comportamento violento, bensì a comportamento antisportivo : vale a
dire un comportamento che avrebbe dovuto indurre l’arbitro a decretarne, non l’espulsione, bensì la
semplice ammonizione.
E’ innegabile che l’inosservanza colposa, nella fattispecie, da parte dell’arbitro del dovere di
diligenza professionale, oltre che media, anche minima, ha influito in maniera decisiva
sull’andamento e sull’esito della gara, in maniera negativa per la Lazio.
Un andamento ed un esito causa di danni, patrimoniali e non patrimoniali, ai tifosi, agli azionisti
della Lazio, nonchè agli scommettitori che avevano puntato sulla vittoria di quest’ultima.
Quanto, infine, alle azioni giudiziarie proposte da alcuni avvocati, di cui hanno parlato articoli di
stampa ( vedasi, al riguardo, le mie Note del 22 dicembre scorso su www.federsupporter.it), sempre
in tema di responsabilità professionale, ritengo opportuno ed utile richiamare l’attenzione sugli
aspetti che seguono.
Secondo giurisprudenza, di merito e di legittimità, sussiste per l’avvocato l’obbligo, se non vuole
incorrere in responsabilità professionale, di valutare tutte le possibilità di esito dell’azione che il
cliente intende proporre, a maggior ragione se è l’avvocato a proporla al cliente, omettendo di
informarlo sulle possibilità che vi siano fondate ragioni per un esito negativo dell’azione stessa.
Né la responsabilità professionale viene meno se il cliente abbia, per ragioni di lavoro o per scelta
professionale, specifica competenza in materia giuridica, sussistendo, comunque, a carico
dell’avvocato il dovere di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e gli eventuali elementi
di fatto e di diritto contrari all’utile esperimento ed al successo dell’azione.
A questo proposito, la Cassazione ( Sentenza n. 10289/2015) ha stabilito che “ L’avvocato è
responsabile della strategia messa in atto negli interessi difensivi del cliente, ed il fatto che la
stessa sia stata concordata o ispirata dallo stesso assistito non lo salva dalla responsabilità per
aver usato una tattica sbagliata perdendo la causa” e, ancora, che l’avvocato è tenuto ad
assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che durante lo svolgimento del rapporto, “ non
solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed
informazione dello stesso- dovendo, tra l’altro- sconsigliare il cliente dall’intraprendere o
proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.”.
Avv. Massimo Rossetti
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